Le ricerche ci dicono che circa il 20% della popolazione è altamente sensibile (P.A.S.) o Highly Sensitive Person (HSP). Fu Elaine Aron negli anni 90 ad approfondire questa tematica parlandoci di alcune caratteristiche riscontrabili nelle persone altamente sensibili.
Le ricerche ci dicono che in queste persone sembra esserci un sistema nervoso che elabora più informazioni del normale o, per meglio dire, in maniera più profonda e complessa. In questo modo, oltre ai vantaggi di una maggiore apertura agli stimoli accrescitivi, potrebbe esserci un sovraccarico di stress e maggiore stanchezza.
Inoltre sono persone che empatizzano più facilmente di altri e che colgono dettagli delle situazioni in modo più accurato.
Al netto delle suddette caratteristiche, la domanda da cui partiamo (sono TROPPO sensibile?) nasconde un inganno. Il TROPPO sembra manifestare un’accezione negativa, un “difetto” da rivedere e modificare, un aspetto della persona che lascia emergere un “inciampo”. In verità la sensibilità può essere il valore aggiunto, la lente che consente di comprendere meglio cosa sta avvenendo, sia fuori che dentro se stessi; è necessario imparare a gestire le emozioni che emergono e utilizzarle al meglio per trasformare il tutto in una opportunità.
Sembra strano ma anche la #vergogna ha la sua funzione; un’emozione catalogata nel pensiero comune come “negativa”, ha in realtà un senso di esistere e può esserci molto utile.
Vediamo in che modo.
Innanzitutto possiamo chiederci: da dove nasce la vergogna? Perché alcune persone provano frequentemente questa emozione ed altri no?
La vergogna è un’emozione che, assieme alla colpa ad esempio, ci caratterizza come esseri umani e ci distingue dagli animali; è considerata infatti un’emozione “sociale” e che richiede autoconsapevolezza. Lewis, nel suo lavoro “IL Sé a nudo: alle origini della vergogna”, scrive: “solo una persona gravemente disturbata non prova mai vergogna, finché l’uomo sarà un animale sociale inevitabilmente la sua vita conoscerà questo stato d’animo”
La vergogna nasce in stretta relazione con un senso di inadeguatezza, con un’idea di se stessi carenti e manchevoli.
Questa immagine di se stessi si costruisce nel tempo, attraverso l’interazione con l’ altro significativo, con le figure di riferimento dell’infanzia. Secondo l’originale teoria di Bowlby, la qualità del legame precoce dei bambini al loro caregiver primario dovrebbe essere vista come base per il loro modo di impegnarsi in interazioni con altre persone in età avanzata. Se il legame iniziale è andato male, sviluppando emozioni negative, e non è sicuro, questo avrà un significativo impatto negativo sulla vita sociale durante l’infanzia, l’adolescenza e anche l’età adulta (Sroufe 2005).
Uno stile di #attaccamento insicuro dunque, è caratterizzato da un atteggiamento genitoriale di svalutazione e critica nei confronti del bambino e questo lo porta a sentirsi inadeguato, pervaso pian piano dalla vergogna, che entrerà a far parte dell’immagine di se stesso.
COME SI MANIFESTA LA VERGOGNA?
Il nostro corpo è perfetto e la stretta relazione tra lui e le emozioni si mostra anche quando proviamo vergogna. Il rossore infatti, ha una spiegazione scientifica: l’adrenalina rilasciata in situazioni di stress determina la dilatazione dei vasi sanguigni, l’afflusso del sangue ai muscoli che serve per un comportamento di attacco/ fuga viene però bloccato e confluito sul viso e in altre parti del corpo che sono visibili determinando il tipico rossore.
MA A COSA SERVE DUNQUE LA VERGOGNA?
La vergogna è un messaggio, una comunicazione che diamo all’altro; arrossire, come detto sopra, ha una funzione anche sociale in quanto si è più predisposti a perdonare chi arrossisce per la vergogna a seguito di un’azione imbarazzante. Quando arrossiamo dunque, in un certo senso, stiamo comunicando la “resa”, la richiesta di non “infierire”.
SI PUO’ SUPERARE IL SENTIMENTO DELLA VERGOGNA?
Assolutamente si, attraverso alcuni step importanti. Il primo passo è riconoscerla e accettarla; imparare a comprendere quando si prova vergogna, perché si prova, cosa sta succedendo intorno a noi. Abbiamo detto che la vergogna è strettamente legata ad un senso di inadeguatezza, dunque il passo successivo è senza dubbio andare a vedere “dove” abbiamo costruito questa idea di noi stessi e modificarla, scoprendo invece risorse, punti di forza, competenze e qualità.
All’aumentare di una nuova idea di noi stessi, la vergogna finirà sulla sfondo, utile solo in alcune occasioni ma non più pervasiva nella nostra vita.
“Dottoressa ho ansia a parlare in pubblico”, oppure “Mi vergogno a mangiare con altre persone”, o ancora “Non riesco ad esibirmi in pubblico, intervenire a voce alta in un convegno, davanti ad altre persone”.
Alcune situazioni creano ansia a ciascuno di noi; parlare davanti a tante persone emoziona, e tutti abbiamo una quota di “ansia da prestazione”. Ciò che caratterizza una vera e propria fobia sociale è l’aspetto sproporzionato di tale ansia (che si teme possa essere visibile a tutti) e la presenza di paure infondate.
Questa viene definita una “fobia sociale semplice”, ovvero relativa a specifiche situazioni.
Se la fobia sociale viene generalizzata a tutte le situazioni sociali, si tende ad andare incontro ad un “disturbo evitante di personalità”, dove nel tentativo di rassicurare se stessi, si evitano tutte le situazioni che creano disagio con il risultato di incastrarsi in un circolo vizioso, dove evitando abbasso l’ansia ma allo stesso tempo riconfermo a me stesso di essere inadeguato.
La fobia sociale rientra quindi a pieno titolo nei disturbi d’ansia e sembra che circa il 13% delle persone nel corso della sua vita, presenta una fobia sociale; le donne sviluppano il disturbo nel 9% circa dei casi, mentre gli uomini nel 7% circa.
La psicoterapia aiuta il soggetto che soffre di fobia sociale a riorganizzare i propri schemi mentali, modificando i pensieri pervasivi e. attraverso una serie di prescrizioni e di esperienze emozionali correttive, aiutando il soggetto a sperimentare un nuovo modo di affrontare le situazioni.
Il Dr. Hamer (ex primario di oncologia in una grande clinica tedesca) condusse un colossale lavoro di ricerca (su più di 7.000 pazienti) per arrivare alla conclusione che tutti i suoi pazienti ammalati di cancro, qualunque fosse l’organo colpito, avevano vissuto, nei mesi precedenti l’apparizione del tumore, quello che lui ha definito trauma o conflitto biologico vissuto nell’isolamento.
Egli ha scoperto inoltre che nel momento in cui si verifica il trauma vi è un’interruzione del campo elettromagnetico a livello del cervello.
Secondo questo autore, e molti altri ancora, certi conflitti, certi stati emotivi non totalmente espressi dalle parole, dalle emozioni, si rivelano attraverso il corpo. (P. Pupulin)
In italia ogni giorno abbiamo 600 diagnosi di cancro; in questi ultimi due anni, a fronte della scarsa possibilità di prevenzione a causa della pandemia, sono certamente molto meno le persone che sono arrivate ad una diagnosi. Ci aspettiamo nel breve-medio periodo un aumento esponenziale delle diagnosi, che abbracceranno tutte quelle drammaticamente perse durante due anni di Covid-19.
La diagnosi di malattia oncologica è spiazzante e angosciante. Ciò che le persone riportano è la percezione di una forte minaccia alla propria sopravvivenza.
Il percorso che la persona malata si trova a dover percorrere è colmo di insidie e ostacoli, fatto di terapie, visite, controlli, relazioni con medici e operatori sanitari; questa strada è spesso accompagnata da sentimenti di paura, tristezza, demotivazione. Si possono verificare reazioni ansiose e/o depressive e possiamo annoverare la diagnosi di malattia oncologica ad un trauma vero e proprio e, dunque, al possibile sviluppo di un disturbo post traumatico da stress, che porta con sé le reazioni dette sopra.
L’EMDR restituisce alla persona il senso di potere della propria vita; trasforma la sensazione di sentirsi perduti, impotenti e in balia degli eventi, o senza via di scampo, in una positiva ripresa del corso della propria esistenza, nella sensazione di poter gestire la situazione, di poter fare delle cose, di non essere “perduti”.
Le ricerche hanno ipotizzato che gli effetti funzionali della terapia EMDR possano rappresentare un’opzione di trattamento ideale nel setting di pazienti con tumore e conseguente disturbo post traumatico da stress (Carletto e Pagani, 2016 ). Gli autori suggeriscono che l’EMDR ha una comprovata capacità di normalizzare la disfunzione delle aree limbiche coinvolte nel disturbo da stress post-traumatico e nella depressione e potrebbe alleviare i pazienti dal carico psicologico associato al cancro.
I dati ci dicono che circa il 70% delle donne dopo il parto, manifesta sintomi associabili a una leggera depressione post partum, ma caratterizzati da transitorietà: il cosidetto Baby Blues
Il termine “Baby blues” è stato coniato dal pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott per definire i sintomi leggeri di depressione che spesso vive la donna nei primi giorni dopo il parto. Generalmente tende a risolversi spontaneamente entro circa due settimane. Questo stato di malessere passeggero è caratterizzato da umore instabile, crisi di pianto, stanchezza e tristezza, che tuttavia non alterano la capacità della donna di prendersi cura del proprio bambino
La vera e propria depressione post-partum o depressione post-natale (DPN), che invece sembra colpire circa il 10-20% delle donne, è più duratura e solitamente è caratterizzata da una serie di sintomi:
• sentimenti di tristezza
• senso di colpa
• ansia
• senso di inutilità
• difficoltà a concentrarsi e a prendere decisioni anche banali
• disturbi del sonno e dell’appetito
• pensieri suicidari o di morte
• perdita di interessi e mancanza di energie
Ci sono alcuni fattori che possono predisporre allo sviluppo di una depressione post partum; sono fattori di ordine biologico (mancanza di sonno, sbalzi ormonali ecc), psicologico (avere una bassa autostima, sentirsi spesso inadeguati ecc) e psicosociale (lo stato economico, la rete familaire ecc)
Uno studio statunitense condotto su quasi cinquemila madri e pubblicato sulla rivista scientifica Pediatrics, rivela che i sintomi della depressione post-partum possono essere rilevati anche fino a 36 mesi dalla nascita di un figlio. Nell’insieme, il 25.3 per cento delle donne studiate ha manifestato sintomi depressivi nei tre anni conseguenti al parto. Ragion per cui, sottolineano gli esperti, sarebbe opportuno estendere i controlli almeno ai primi 24 mesi successivi all’esito di una gravidanza.
La gravidanza implica profondissime trasformazioni nella vita di una donna, sia dal punto psicologico ed emotivo, sia dal punto di vista fisico/corporeo e di relazione con gli altri. Avere bisogno di tempo per adattarsi al nuovo ruolo e ri-costruirsi integrando la nuova identità di madre, può accadere a molte donne e non c’è nulla di inadeguato in tutto ciò. La rete che circonda la donna dovrebbe sostenere questo passaggio senza dare nulla per scontato (“sei mamma”, “sai come fare”, “usa l’istinto” ecc) poiché anche la relazione con il proprio figlio ha bisogno di tempo per essere costruita ed è necessaria una reciproca conoscenza per comprendere quali siano i bisogni del bambino. Piuttosto, se vi accorgete che una neo-mamma è in un momento di difficoltà e profonda tristezza, si sente inadeguata e colpevole, alleggerite il carico e suggerite un sostegno per far si che il disturbo non si strutturi sempre più, ma si possa intervenire a sostegno della donna, e del bambino, il prima possibile.
I due disposofobici più celebri, che per primi portarono agli onori della cronaca la patologia, furono due ricchi fratelli newyorkesi: Langley e Homer Lusk Collyer. Nel 1933, cominciò il loro isolamento dall’esterno, quando Homer divenne cieco a causa di un’emorragia oculare. Il fratello minore, Langley, lasciò il suo lavoro di rivenditore di pianoforti, per dedicarsi alla cura di Homer. Nel 1947 furono rinvenuti cadaveri in una casa piena di cianfrusaglie, scatole, pile di giornali, vecchi ombrelli e 14 pianoforti, per un totale di 150 tonnellate di oggetti, protetti da trappole esplosive contro gli intrusi. I Vigili del Fuoco di New York usano tuttora il codice “Dimora Collyer” per indicare una chiamata nell’abitazione di un “accumulatore”
E’ oramai appurato da moltissime ricerche nel campo, che corpo e mente siano in stretta relazione, al punto che spesso è proprio il corpo a suggerire il disagio psico-emotivo.
Esistono alcuni sintomi caratteristici che riportano l’attenzione alla dimensione mentale, dove vi è una stretta relazione tra disturbo/segnale del corpo e disturbo della mente:
nel mal di testa ad esempio, spesso tensioni muscolari scatenano cefalea, emicrania ecc…
nei disturbi gastrointestinali (gastrite, colite ecc)
nelle malattie psicosomatiche come la psoriasi, l’alopecia, la dermatite ecc..
nelle problematiche cardiovascolari (palpitazioni, tachicardia ecc..)
ciò accade perchè il dolore ha una funzione, il corpo ci avvisa con un allarme, ovvero con un segnale di pericolo, che qualcosa non va (a livello fisico o psicologico)
“Noi siamo il nostro corpo e il nostro corpo è la nostra casa: tutti i “rumori” derivano da qualcosa che si sposta dentro di noi e che cerca una giusta collocazione. Ciò genera dolore fisico, fastidio e malessere e ha un significato: la voglia di cambiare. I nostri muscoli ci hanno costruito, le nostre ossa ci hanno sostenuto, la nostra carne ci ha protetto, i nostri vasi ci hanno nutrito, la nostra cute ci ha rivestito. Le parti del nostro corpo ci conoscono, ci hanno ascoltato, hanno sentito i nostri bisogni e vibrato le nostre paure, dunque sanno tutto di noi. Siamo noi che non conosciamo il nostro corpo.” (Centrodr.it)
Si definiscono disturbi psicosomatici tutte le problematiche manifestate da una persona che, dopo una diagnosi differenziale, non sono riconducibili a disturbi organici o di simulazione. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-V) include in questa categoria il disturbo da sintomi somatici, il disturbo da ansia di malattia, il disturbo di conversione, il disturbo fittizio, i fattori psicologici che influenzano altre condizioni mediche.
Secondo il DSM-5, per formulare una diagnosi di disturbo da sintomi somatici è necessaria la presenza di almeno un sintomo somatico capace di creare forti limitazioni nella vita di tutti i giorni per un periodo di almeno sei mesi. Al sintomo somatico devono associarsi almeno una delle seguenti risposte psicologiche o comportamentali: a) pensieri eccessivi riguardanti la gravità dei sintomi; b) elevati e persistenti livelli di ansia o impiego eccessivo di tempo e di energie spese a causa delle preoccupazioni per il proprio stato di salute
Oggi, più che in passato, non si fa diagnosi di disturbo psicosomatico solo sulla base dell’assenza di una diagnosi medica, bensì ci si orienta più su una serie di pensieri, emozioni e comportamenti che accompagnano il disturbo e che rappresentano segnali positivi che orientano ad una diagnosi di questo tipo.
COME SI TRATTANO DISTURBI PSICOSOMATICI?
L’APA (American Psychiatric Association) per il disturbo da sintomi somatici raccomanda «un trattamento che aiuti a controllare i sintomi e aiuti la persona a funzionare nella maniera più normale possibile. Questo comporta l’avere visite regolari con un professionista di fiducia che possa fornire supporto, rassicurazione, monitoraggio dei sintomi, evitando eccessivo ricorso a test e trattamenti non necessari. La psicoterapia può aiutare il cambiamento individuale dei pensieri e dei comportamenti, attraverso l’apprendimento di nuove strategie per gestire il dolore, lo stress e migliorare il proprio funzionamento».
Quando comunichiamo con qualcuno, ciò che diciamo con le parole ha un impatto sul messaggio pari solo al 7%.
7% è dunque la responsabilità delle parole sul messaggio finale che arriverà al nostro interlocutore; le parole sono importanti, fondamentali e devono essere scelte con accuratezza e precisione, ma che succede al restante 93% del messaggio che cerchiamo di comunicare?
Il 55% di ciò che stiamo dicendo, lo comunicheremo con il non verbale, ovvero tutto ciò che riguarda la mimica, non solo facciale ma di tutto il nostro corpo; il restante 38% arriverà attraverso la comunicazione paraverbale, ovvero il ritmo della nostra voce, il timbro e il volume che useremo ecc…
Questo significa che, pur volendo, “non si può non comunicare” (come specificato da Watzlawick e colleghi, nel primo assioma della comunicazione umana) poichè ogni cosa che facciamo (i sorrisi, i silenzi, gli sguardi ecc…) comunicano qualcosa all’altro.
Spesso non ne siamo consapevoli (e nascono qui anche molte incomprensioni all’interno delle relazioni) ma iniziare con sguardo curioso a guardarsi intorno, può essere un primo passo per rendersi conto di quanti messaggi (a volte contraddittori) riceviamo ed inviamo, che vanno ben al di là di ciò che “diciamo”
“Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l´estrema solitudine “. Vincent van Gogh. In uno di questi campi, di lì a pochi giorni, si sparerà, e morirà due giorni dopo.
Il mondo dell’arte è colmo di racconti di sofferenze e disturbi; tra questi vi è senza dubbio il lavoro di Van Gogh (Campo di grano con corvi) che, oltre le diverse diagnosi psichiatriche ricevute (per giunta mai unanimi), mette su tela il più profondo sentimento di solitudine che prova in quel periodo della sua vita.
Il senso di smarrimento che la solitudine può portare, proprio come raffigurato dall’artista in quella strada senza direzione, è legato alla sensazione di non avere i contatti sociali desiderati. Non si tratta di una “sana” solitudine, intesa come uno spazio individuale inviolabile e come la capacità di “stare soli ma senza sentirsi soli”; si tratta piuttosto di un ritiro sociale quando si percepisce di non avere legami soddisfacenti. Spesso questo porta anche ad un’idea di se stessi come inadeguati, non capaci, non interessanti ecc…
Chiudersi aumenta la diffidenza nell’altro e ciò porta ad ancor maggiore chiusura e diffidenza, in un circolo vizioso che può essere senza fine.
I ricercatori hanno scoperto che il cervello delle persone sole percepisce le minacce sociali automaticamente e più rapidamente rispetto a chi non vive in solitudine, dimostrando così come le persone nella solitudine (prolungata, cronica) si trovino in uno stato di costante allerta.
Al netto dei differenti tipi di solitudine (esistenziale, emotiva, sociale, adolescenziale, in età adulta ecc…) rimane la riflessione che, come esseri sociali, abbiamo la necessità dell’incontro, dello scambio, della protezione dell’altro e questo richiede di entrare in relazione (amicale, di coppia, di gruppo ecc…) e costruire quel legame che possa portare ad uscire da quel circolo vizioso detto sopra e riporti la dimensione della solitudine ad una sana scelta (e non un disagio) di stare, a volte, soli con se stessi.
Spesso quando chiedo ai miei pazienti quale emozione accompagna ciò che mi stanno raccontando, faticano a trovare il nome dell’emozione. Questo è più che comprensibile; innanzitutto non siamo “addestrati” (fin da bambini) a riconoscere e dare un nome alle emozioni, per giunta spesso non le contattiamo proprio perchè questo è un esercizio solo apparentemente semplice ma nella realtà molto complesso, che richiede la capacità di sapersi ascoltare, saper interpretare, saper nominare (e poi, saper utilizzare quella emozione).
Ma quante emozioni esistono?
Sicuramente abbiamo (e conosciamo tutti) le emozioni primarie (o universali): felicità, paura, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa. Queste emozioni sono state confermate da studi e ricercatori in tutto il mondo con metodologie diverse.
Ma una recente ricerca pubblicata sulla rivista scientifica statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (organo ufficiale della United States National Academy of Sciences – 2017) di Dacher Keltner e Alan S. Cowen della University of California di Berkeley sostiene che sia possibile identificare 27 diverse emozioni dell’essere umano e che queste siano connesse tra loro.
*È importante sottolineare che i partecipanti all’esperimento erano tutti americani, si aspettano quindi altre ricerche per affermare l’universalità delle emozioni individuate, sebbene gli studi precedenti abbiano dimostrato che non dovrebbero esserci grandi differenze tra etnie.
Le 27 emozioni individuate sono le seguenti: ammirazione, adorazione, apprezzamento estetico, sorpresa, ansia, timore, imbarazzo, noia, calma, confusione, desiderio, disgusto, dolore empatico, incanto, invidia, eccitazione, paura, orrore, interesse, felicità, nostalgia, amore, tristezza, soddisfazione, desiderio sessuale, empatia ed esultanza. Gli autori hanno creato una mappa interattiva molto interessante che potete trovare a questo link: https://s3-us-west-1.amazonaws.com/emogifs/map.html#modal